Don Stanislaw, il giorno dell’attentato
In un libro i ricordi del segretario di Papa Wojtyla
ROMA, 2 ott - ''Quel giorno, la jeep stava compiendo il secondo giro di piazza San Pietro, verso il colonnato di destra, quello che termina con il Portone di Bronzo. Il Santo Padre si è sporto fuori della macchina verso una bambina bionda che gli stavano tendendo: si chiamava Sara, aveva appena due anni, e stringeva tra le dita il filo di un palloncino colorato. Lui l’ha presa in braccio, l’ha sollevata in aria, come per farla vedere a tutti, poi l'ha baciata e sorridendo l’ha restituita ai genitori''. Comincia così il XIX capitolo ('Quei due colpi di pistola...') del libro 'La mia vita con Karol' (Rizzoli) nel quale don Stanislaw racconta il giorno dell'attentato a Papa Giovanni Paolo II.
''Erano, ma lo si ricostruirà dopo, le 17.19. Le udienze generali del mercoledì, con la bella stagione, si tenevano all’aperto, di pomeriggio. E così - dice il segretario particolare del papa - anche quel 13 maggio del 1981. Ero affascinato da quella scena, le mani della madre e del padre che si allungavano per riprendersi quel batuffolo roseo. E così il primo sparo non l'ho nemmeno sentito, ho solo visto centinaia di colombi levarsi improvvisamente e volare via come spaventati. Poi, subito dopo, il secondo colpo. E nel momento in cui lo sentivo, il Santo Padre ha preso ad afflosciarsi su un fianco, addosso a me. Istintivamente anch'io, ma l’ho visto dopo nelle fotografie, nelle riprese televisive, ho guardato là dove erano partiti gli spari. C'era un parapiglia, un giovane dai tratti scuri si divincolava. E solo dopo saprò che si trattava
dell’attentatore, un turco, Ali' Agca''.
''E forse - prosegue il racconto - ripensandoci adesso, ho guardato da quella parte, là dove c'era quel trambusto, proprio per non vedere, per non accettare quel fatto tremendo che era accaduto. E che invece 'sentivo' tra le mie braccia. Cercavo di sorreggerlo, il Papa, ma lui era come se si lasciasse andare.
Dolcemente. Aveva una smorfia di dolore, eppure era sereno. Gli ho chiesto: 'Dove?'. Ha risposto: 'Al ventre'. 'Fa male?'. E lui: 'Fa male'. La prima pallottola aveva devastato il suo addome, perforando il colon, lacerando in più punti l’intestino tenue, e poi era uscita cadendo lì nella jeep. La seconda
pallottola, dopo aver sfiorato il gomito destro e fratturato l'indice della mano sinistra, aveva ferito due turiste americane.
Qualcuno ha urlato di dirigersi verso l'ambulanza. Ma l'ambulanza si trovava dall'altra parte del Vaticano. La jeep ha attraversato velocemente l'Arco delle Campane, ha percorso via delle Fondamenta girando all'esterno tutto attorno all’abside della basilica, poi giù per il 'Grottone', il cortile del Belvedere, e finalmente la direzione del FAS, i servizi sanitari del Vaticano, dove c'era, avvertito nel frattempo, il dottor Renato Buzzonetti, medico personale del Santo Padre''.
''Mi hanno preso il Papa dalle mani - ricorda ancora don Stanislaw - lo hanno sdraiato per terra, nell’androne dell'edificio, e solo in quel momento ci siamo accorti del gran sangue che sgorgava dalla ferita provocata dal proiettile uscito dietro. Buzzonetti gli ha piegato le gambe chiedendogli se riuscisse a muoverle, e lui le ha mosse. Immediatamente dopo, il medico ha gridato di andare al Gemelli. Non si trattava di una scelta a caso ma decisa da tempo, qualora ci fosse stata necessità di ricoverare il Santo Padre. L'ambulanza, che era intanto arrivata, e' partita a tutta velocità, e così è cominciata quella disperata corsa contro il tempo, su per via Aurelia, per la Pineta Sacchetti. La sirena non funzionava bene, c’era traffico, e l’autista spingeva ininterrottamente sul clacson. Il Papa stava perdendo le forze, ma era ancora
cosciente. Si lamentava con gemiti sommessi, sempre più flebili. Mormorava: 'Ma perché l’hanno fatto?'. Diceva parole di perdono, per chi gli aveva sparato. E pregava, sentivo che pregava invocando 'Gesù, Maria madre mia'. Ma proprio quando siamo arrivati al Policlinico, ha perduto conoscenza. E allora sì, in quel preciso momento mi sono reso conto che la sua vita era in pericolo mortale. Gli stessi medici che hanno eseguito l’intervento mi avrebbero più tardi confessato di averlo operato senza credere, proprio cosi' mi hanno detto, senza
credere nella sopravvivenza del paziente''.
''Non ricordo più perché, forse per lo sbigottimento che aveva preso tutti, per la concitazione di quegli attimi drammatici, ma - racconta ancora - hanno portato il Santo Padre prima al decimo piano per dover poi scendere al nono, fino alla sala operatoria.
E a un certo punto ho sentito qualcuno urlare: 'Di qui facciamo prima!'. Così, per abbreviare il percorso, gli infermieri hanno forzato due porte. Anch’io son potuto entrare, c’era tanta gente. Stavo lì, in un angolo, e quindi venivo a sapere tutto subito. C’erano problemi per la pressione sanguigna, per il battito cardiaco. Ma la cosa peggiore è stata quando il dottor Buzzonetti si è avvicinato per chiedermi di amministrare al Santo Padre l'unzione degli infermi. L'ho fatto immediatamente, ma con l’animo straziato. Era come se mi avessero detto che non c’era più niente da fare....''. (ansa)