Wojtyla, il medico Buzzonetti racconta il suo paziente
22 mar 06 - Il primo ricordo che il dottor Renato Buzzonetti ha di Papa Wojtyla risale
all'ottobre del 1978. ''Se chiudo gli occhi lo vedo ancora. Seguito da porporati e monsignori mentre usciva dalla Sistina. Io ero il medico del Conclave e dirigevo l'equipe addetta all'assistenza sanitaria dei conclavisti. Il suo nuovissimo zucchetto bianco sembrava galleggiare sul gruppo che festosamente lo circondava. Era una persona totalmente sconosciuta e chiesi chi fosse''.
Intanto il nuovo Papa si dirigeva alla Loggia della Benedizione, e davanti ad una folla immensa pronunciò quelle parole che lo fecero subito entrare nel cuore degli italiani: ''se sbaglio mi corrigerete''.
Al termine ''fece ritorno nella sala Regia per un breve saluto a tutti i conclavisti, laici ed ecclesiastici. Giunto dinnanzi a me, mi pose una mano su una spalla e mi chiese notizie del suo grande amico, l'allora monsignor Deskur, in quei giorni in ospedale. Questo gesto suscitò grande stupore e curiosità negli astanti, che ignoravano il contenuto del fugace colloquio. Il Papa mi pregò di informarmi sugli ultimi sviluppi, ma c’era il blocco dei telefoni per via del Conclave. Ma lui insistette: si informi lo stesso''.
Renato Buzzonetti medico personale di Giovanni Paolo II, prima ancora di Paolo VI e ora di Papa Ratzinger, è stato legato umanamente e professionalmente, per oltre 26 anni a Papa Wojtyla. Lo ha seguito ovunque viaggiando al suo fianco in ogni angolo del pianeta, sempre pronto ad intervenire, discretamente, ogni volta che occorreva. Fare il medico del Papa significa svolgere una missione a servizio della Chiesa. Non è un semplice mestiere. ''I nostri rapporti erano improntati a grande semplicità. Da parte mia, ci fu sempre una filiale e rispettosa sincerità, da parte del Papa, una affettuosa fiducia, che si manifestava con grande sobrietà e trasparente benevolenza''.
A parte monsignor Stanislao, il fedele segretario personale e a suor Tobiana, la religiosa che accudiva la persona del Papa, il medico personale è stato uno dei pochissimi dell'entourage ad avere assistito per tutto il periodo della malattia Wojtyla, prodigandosi giorno e notte, impotente testimone della sofferenza e della vita che si spegneva.
''Il 31 marzo dell'anno scorso, il giovedì che precedette la morte, quando il Papa colpito da shock settico che fece precipitare la situazione rendendola irreversibile, al tramonto venne celebrata una messa ai piedi del letto. Il Papa era perfettamente consapevole che quelli erano i suoi ultimi giorni terreni. Celebrava il cardinale Marian Jaworski. Nella stanza c'erano i segretari Mietek e Stanislao, le suore polacche, i medici e gli infermieri. Infine l'ultimo saluto, sobrio e austero. Drammatico. Il Papa era cosciente. Emergeva da uno shock durato alcune ore. Salutò uno per uno i presenti; le suore chiamandole per nome e poi soggiunse: ''per l'ultima volta''. Il primo fu Stanislao. Io riuscii a dirgli solo 'Santità le vogliamo bene'. Il Papa non pianse mai, non si scompose anche se erano momenti che visse con serenità interiore''.
Papa Wojtyla viene descritto dal suo medico come un ''paziente docile'', ''attento'', ''curioso'' ma che ''non amava le iniezioni''. ''Sopportava il dolore ma lo valutava sempre bene. Era molto esatto nella segnalazione dei sintomi dei disturbi di cui soffriva e posso dire con certezza che lo faceva non tanto per una reazione davanti alla malattia, piuttosto per la determinazione a voler guarire presto, per poter tornare prima possibile al lavoro. Ed è un atteggiamento che ha avuto fino all'ultimo''. Sulla personalità del Papa il dottor Buzzonetti riferisce di un uomo che viveva in ''intima unione con il Signore, fatta di ininterrotta contemplazione ed orazione''. Aveva ''una fede d'acciaio'' e un'anima in cui vibrava ||tutto il romanticismo polacco e il misticismo slavo e primeggiavano una penetrante intelligenza, una rapida e sintetica capacità decisionale e, soprattutto una evangelica capacità d'amare, condividere, perdonare''.
Da medico del Conclave ad Archiatra Pontificio il passo fu breve anche se non scontato. La chiamata avvenne a sorpresa nel dicembre 1978. Quel giorno il dottor Renato Buzzonetti era in ospedale, al San Camillo, a lavorare quando arrivò una telefonata dall'allora secondo segretario del Papa, monsignor Magee. ''Mi chiedeva di passare da lui. In serata arrivai all'appartamento papale convinto che forse il monsignore aveva un pò d'influenza. Fui portato in salottino e di lì a poco, con mia grande sorpresa, arrivò Giovanni Paolo II accompagnato da due medici polacchi. Mi fece sedere attorno ad un tavolo e mi disse in un italiano ancora incerto che voleva nominarmi suo medico personale. Quindi cominciò a descrivermi la sua anamnesi con molta esattezza di dati e numeri. Wojtyla era una persona in buona salute. Quella sera mi invitò a cena. All'indomani scrissi a Stanislao dicendo che accettavo e che ero pronto a dimettermi quando il Papa avesse voluto. Scrissi anche che io sarei stato facilmente criticato per avere accettato. I motivi sono facilmente intuibili. Cosa che puntualmente avvenne. Ma io iniziai il mio lavoro''.
Il Papa malato di Parkinson. I primi sintomi di Parkinson insorsero attorno al 1991. ''Guardando indietro penso che non ci sia stato un momento circoscritto e preciso in cui il Papa ha scoperto di soffrire di questa malattia. Per tanto tempo ha sottovalutato soggettivamente alcuni disturbi e solo tardivamente ha cominciato a chiedere spiegazioni sul tremore. Io gli dicevo che il tremore e' il sintomo più evidente di questa patologia neurologica, ma che il tremore non ha mai ucciso nessuno benchè sia un grave impedimento. Fu soprattutto la mancanza di equilibrio a rendere critica la situazione. Più tardi a questo si è inserita la vicenda dei dolori osteoarticolari al ginocchio destro che impedivano al pontefice di restare in piedi a lungo. Erano due sintomatologie che si sommavano, il Parkinson e la malattia osteoarticolare. Si passò dunque all'uso del bastone, poi degli artifizi delle seggiole adattate, delle pedane mobili''.
Non si arrendeva al dolore. ''Giovanni Paolo II non ha mai, mai mostrato momenti di scoramento davanti al dolore. Ci fu solo un momento di stupore, subito dopo la tracheostomia nel marzo dell'anno scorso. Risvegliandosi dall'anestesia chiese una lavagnetta a suor Tobiana. Non poteva parlare. Improvvisamente si trovava a fronteggiare una nuova condizione, pesantissima. Scrisse con grafia incerta e in polacco: 'cosa mi avete fatto..totus tuus'''. ''Il dolore fisico, negli ultimi periodi, era molto intenso, ma non era il solo dolore che provava. Per lui c’era soprattutto la sofferenza di essere impotente. Era un dolore morale, spirituale, che lo toccava nel profondo. Era il dolore di un uomo in croce che accettava tutto con coraggio e pazienza. Non ha mai chiesto sedativi nemmeno nella fase finale. Era soprattutto il male di un uomo bloccato, inchiodato ad un letto o ad una poltrona, che aveva perso l'autonomia fisica.
Erano i giorni della grande impotenza. Non poteva più fare niente da solo. Penso che quello sia stato il punto più profondo della spoliazione e del distacco''
Le ultime parole. ''Nei giorni dell'agonia poteva pronunciare poche parole e malissimo. Lo faceva con voce biascicata e in polacco. Il sabato mattina, 2 aprile, manifestava una coscienza obnubilata. Verso le 15,30 pronunciò una frase: 'Lasciatemi andare dal Signore''. La pronunciò in polacco rivolgendosi a suor Tobiana. Successivamente quella frase, nella versione ufficiale, fu modificata con 'Lasciatemi andare alla casa del Padre'. Il Papa sapeva perfettamente cosa lo aspettava, che la fine era prossima. Verso le ore 20 fu celebrata nella sua stanza una messa. L'ultima. Giovanni Paolo II non era più cosciente.
Quanto alla frase famosa che avrebbe pronunciato la sera precedente, quando piazza san Pietro era gremita di giovani che vegliavano e pregavano: 'vi ho cercato e voi siete venuti', personalmente quella frase io non l'ho udita''.
L’attentato. ''Il Papa non parlava mai di quell'argomento. Lo sentii parlare dell'attentato solo una volta o due in tempi lontani. Una volta accennò al fatto sorridendo, raccontando che Alì Agca voleva sapere il contenuto del Terzo segreto di Fatima. Io personalmente gli ho mai chiesto nulla di quei giorni
terribili. Posso però dire che risvegliandosi al Gemelli dall'anestesia, dopo l'intervento che durò 5 ore, disse: ''come Bachelet''. Io gli dissi, 'No santità, perchè lei è vivo e vivrà, Bachelet no'. Credo che citò quel nome perchè fu molto colpito dalla morte di Bachelet avvenuta l'anno prima. Era una persona che conosceva bene perchè faceva parte del Pontificio Consiglio per i Laici. Per lui volle celebrare una messa a San Pietro''.
Alì Agca lo osservava da tempo. ''So che di Alì Agca esiste una fotografia che lo ritrae mescolato ai parrocchiani di una parrocchia che Giovanni Paolo II andò a visitare due settimane prima dell'attentato del 13 maggio 1981. Francamente non so che fine abbia fatto quella foto. Poi so per certo che Alì Agca era presente in piazza san Pietro la settimana prima dell'attentato, di domenica. Quella domenica il Papa pronunciò un appello contro l'aborto, a favore della vita umana. Agca era tra le persone che sostavano sul sagrato, così mi disse una persona che poi lo riconobbe come l'uomo che quel giorno gli era di fianco''.
I l medico e la missione di Cireneo. ''La morte di questo Papa, servito e amato, era la morte di un uomo ormai spogliato da tutto, che aveva sperimentato le ore della battaglia e della gloria e che ora si presentava nella sua nudità interiore, povero e solo, all' incontro con il suo Signore, a cui stava per restituire le Chiavi del Regno. Al mio spirito si rendeva drammaticamente presente e tangibile il mistero della Chiesa''. (ANSA)